San Simeone di Sis – Lo Stilita -



Vita, Morte, Miracoli



<<Il famoso Simeone, meraviglia dell'umanità, tutti i sudditi dell'Impero romano, lo conoscono; ma è celebre anche tra i Persiani, i Medi e gli Etiopi e la sua fama si è diffusa fino ai nomadi della Scizia ai quali ha fatto conoscere il suo amore per la penitenza e la sapienza>>. Ecco le parole con le quali Teodoreto apre la biografia del primo stilita. E in realtà, la vita di questo anacoreta supera in fatto di meraviglioso e sovrumano quella di tutti i monaci di Palestina, Siria e Mesopotamia. Era nato a Sisa ai confini dell'Antiochena e della Cilicia, da una famiglia di pastori d'armenti. Un giorno -aveva undici anni- udì leggere in chiesa il Vangelo delle Beatitudini e la sua fede si infiammò. Beati non erano quelli che il mondo proclamava tali, erano i poveri, i cuori puri, gli afflitti, i sofferenti. Andò a trovare un sacerdote: <<Come posso realizzare questa benedizione?>>. <<Concludendo -gli rispose questi- vita eremitica.>> <<Ma dove?>> il povero giovane ignorava tutto delle pratiche ascetiche e delle fondazioni monastiche. Si precipitò in una cappella vicina dedicata ai santi martiri, si prosternò fino a terra, e supplicò il cielo di mostragli la via. In quella posizione, s'addormentò ed ebbe un sogno: si vedeva, con una pala in mano, a scavare, scavare, scavare; e ogni volta che si fermava, una voce gli diceva :<<Scava ancora!>>. E lui si accaniva ad obbedire. Fino a che la voce proclamò: <<Basta! Adesso potrai edificare senza difficoltà>>. Trovò non lontano di lì un gruppo di asceti e si mise alla loro scuola.

Per due anni, ne ascoltò i consigli e ne imitò le usanze. Erano quelle indubbiamente, le fondamenta che doveva scavare. Si sentì abbastanza forte, da sottoporsi alla regola più severa; gli fu indicata Teleda.

NSan Simeone (Dipinto di Gianni Cuoghi)on chiese l'ammissione alla casa madre, costruita da Ammiano, ma ad una filiale costruita da Eusebona e Abibion, governata all'epoca dal loro successore, Eliodoro, uomo stimato per santità e che aveva già trascorso sessantadue anni in quel monastero senza uscirne. Lo accolsero forse con un po' di diffidenza, da quel principiante che era, il quale avrebbe tuttavia superato gli ottanta anacoreti colà riuniti. Le cose non procedettero senza mormorazioni e perfino qualche scontro: Simeone, non essendo in cenobio sottoposto a una regola, ma libero di disporre di sé secondo il proprio giudizio, si dava a pratiche fino a quel momento sconosciute. Quando i più valorosi digiunavano tre giorni, quel giovane di quattordici o quindici anni trascorreva una settimana senza prendere una briciola di pane. E poi fu la volta di due settimane, e ben presto di tre. Trovò un sistema eccellente per non imporre la propria presenza ai fratelli che mormoravano: scavò in fondo all'orto una fossa grande abbastanza da contenere il suo corpo e passò due anni in quella strana cella, esposto a tutte le intemperie. Infine, una delegazione di fratelli andò a trovare Eliodoro, pregandolo di espellere quell'originale che nuoceva alla pace comune. L'abate, che ammirava l'asceta, accetto con un sospiro di dispiacere e comunicò all'interessato.

Sembra che per mitigare la severità di una tale misura l'abate si limitasse ad allontanare Simeone. Questi si ritirò nella foresta vicino al monastero, continuando ad abbandonarsi alle sue mortificazioni. Un monaco che passava di lì avanzò verso di lui con l'intenzione malvagia di muovergli dei rimproveri: cadde a terra come fulminato e uscì da quello stato comatoso soltanto cinque giorni più tardi, quando Simeone ebbe ingiunto ai fratelli di buttargli dell'acqua addosso. Quel miracolo lasciò i suoi oppositori enormemente stupiti. Essi accettarono pertanto che il perturbatore riprendesse il proprio posto nella cinta del monastero. Egli però non si fece più vedere. Fu un fratello incaricato del servizio della legna a dare l'allarme un mese dopo: aveva intravisto Simeone all'interno di una profonda caverna nascosta dalla riserva di legna. Eliodoro andò ad invitarlo a riunirsi alla comunità: era domenica e lui si affrettò, tutto felice di partecipare ai santi Misteri. Ma un altro incidente pose nuovamente il problema della sua presenza. Fratel Simeone puzzava sempre di più, al punto che ogni volta che compariva tra gli altri questi ne provavano nausea. Questi non era una conseguenza della sporcizia, perché in proposito i monaci siriani si equivalevano tutti. Doveva essere qualcosa di eccezionale a indurre quegli esseri rozzi, usi agli odori più nauseabondi a lamentarsi con orrore. Eliodoro convocò il monaco importuno. Era vero: appena Simeone fu in sua presenza, l'abate si sentì soffocare. Gli ordinò di togliersi la tonaca: era incollata alla pelle e la pelle cominciava ad andare in putrefazione. Si dovette chiamare il fratello infermiere, il quale distaccò pazientemente l'abito con olio e acqua calda. Allora, la spiegazione fu chiara: una corda di palmizio era arrotolata attorno ai fianchi di Simeone così strettamente da penetrare nella carne, che stillava sangue e brulicava di vermi. Fu necessario chiamare un medico, che dovette tagliare nel vivo per togliere lo strumento del supplizio. E l'operazione causò a Simeone dolori tali che lo si credette sul punto di morire.

Se la cavò con cinquanta giorni di infermeria.

ACapitelli con foglie di acanto scolpite come mosse dal ventoppena fu in piedi, chiese il permesso di assentarsi: gli fu dato sollecitamente. Andò a seppellirsi per due settimane in un sepolcro. Ma non era abbastanza terribile. Aveva udito parlare di una caverna spaventosa, in cui nessuno aveva mai osato avventurarsi: stupendo posto per una quaresima! Vi si infilò tranquillamente con la sola arma del seguo della croce e con la sola luce delle grazie d'orazione. La cosa si riseppe, se ne ebbe paura: l'abate, sempre premuroso verso l'enfant terrible, inviò una squadra di monaci con torce. Una processione di fiaccole si mosse quindi nelle sinuosità dell'antro maledetto fin quando non trovò il fuggitivo assorto nella preghiera.

Decisamente un simile esaltato, sia pure Santo, sia pure taumaturgo, non era fatto per vivere in società. Una nuova delegazione andò a trovare Eliodoro. I monaci non si erano precisamente recati a Teleda per trattenere con loro Simeone, per andare alla ricerca di Simeone, per tremare ai pericoli incorsi da Simeone, per strappare Simeone alla morte. L'abate, consapevole del duplice ruolo di custode della regola e di padre delle pecorelle eccentriche, chiese loro di pazientare ancora un anno. Infondo, era persuaso che quell'essere straordinario era una benedizione per la casa e che solo l'imperfezione dei monaci, se non addirittura la gelosia, s'opponeva la sua presenza. Ma in capo ad un anno, l'umore degli oppositori non era cambiato, Eliodoro allora convocò l'irrequieto di Dio: era tempo per lui di congedarsi per sempre. Gli offrì del denaro che il giovane rifiutò all'istante: bastava la benedizione del padre. Simeone si ritrovò solo. Aveva trascorso dieci anni nel ritiro di Teleda. Aveva scavato abbastanza in profondità per gettare le basi del suo edificio? Si inginocchiò rivolto ad oriente: <<Mio Signore e mio Dio, mia forza e mio sostegno, ti scongiuro: guidami al luogo in cui vuoi che io ti serva.>> Camminò verso nord superò la montagna di Corifè e arrivò a Telanissos, l'attuale Deir Serman, dove trovò per caso un luogo disabitato, una cella bella e pronta, probabilmente abbandonata da un altro eremita.

CPianta del Santuario e del complesso monastico di San Simeone (Qalaat Saman - Siria)omunque, quel ritiro era noto, perché poco tempo dopo esservi sistemato, udì bussare alla porta un personaggio importate, il sacerdote Basso, corepiscopo, cioè associato ad un vescovo (indubbiamente, in questo caso, quello di Antiochia) e visitatore dei monaci della regione. Aveva fondato lui stesso non lontano di lì, quel luogo che oggi è Batabu, un monastero di duecento monaci, rinomato per lo spirito di povertà e per la disciplina della sua regola.

Vedendo in quel prelato l'inviato della Chiesa, e quindi di Dio, Simeone gli apri la propria anima. Il visitatore, a sua volta, provò una certa perplessità davanti a quell'uomo di Dio a un tempo profondamente soprannaturale e insufficientemente equilibrato. Quando giunse la quaresima, Simeone gli chiese di murare la porta della cella con il fango, ma l'altro non volle acconsentire. Allora, il solitario trovò il mezzo di ottenere l'approvazione: avrebbe collocato nella cella un orcio d'acqua e dieci piccoli pani, quanto bastava per vivere fino a Pasqua. Basso murò la porta e riprese la sua strada. Tornò dopo quaranta giorni, bussò, ma non ebbe risposta. Tolse allora il fango secco ed entrò: Simeone era steso a terra privo di conoscenza, i viveri erano intatti: dieci pani e l'orcio ancora pieno d'acqua. Il sacerdote inumidì il volto di Simeone, gli bagnò le labbra, lo confortò e gli amministrò la santa Eucaristia. L'anno successivo, Simeone tornò alla carica: volle fare il digiuno quaresimale integralmente e vi riuscì: questa volta il corpo era domato.

DLa chiesa - santuario di San Simeoneopo tre anni vissuti fra quelle quattro mura, il solitario, che aveva goduto di numerosi momenti per rimuginare progetti fantastici, fece bagaglio (il che richiese ben poco tempo) e si avviò ancora verso il nord. Sì, ormai aveva scavato quanto bastava a porre le fondamenta. Si fermò davanti alla montagna che oggi è chiamata Qaalat Seman e vi sali sopra.

Dalla vetta piatta si distingueva tutta la regione. L'asceta però non cercava un panorama, bensì un posto sperduto in cui nessuno transitasse e in cui potesse starsene solo a pregare al cospetto del cielo. Preso possesso del luogo innalzò una cinta di pietre a secco. Si procurò una catena di ferro di venti cubiti e ne fissò un'estremità a una roccia e l'altra alla caviglia: era prigioniero per propria decisione. Tuttavia, osserva Teodoreto, la catena di ferro non impediva di volare al suo pensiero. Ma ecco che un altro corepiscopo, di nome Melezio, (forse era successo a Basso, oppure ne condivideva la missione) si presentò all'ingresso della cinta. È supponibile che Simeone, il quale aveva ricevuto la vestizione monastica in nome della Chiesa e pertanto si trovava sotto la sua giurisdizione, avesse segnalato alle autorità episcopali il cambiamento di domicilio; e se dobbiamo ammirare lo spirito ecclesiale dell'anacoreta, dobbiamo anche ammirare il coraggio con cui il visitatore si recava a trovare le pecorelle in qualunque luogo fossero andate a pascolare. La fantasia del giovane monaco non piacque al prelato: andò alla ricerca di un fabbro (non ci viene detto quanto tempo i superiori di Simeone siano stati impegnati a occuparsi della sua anima e del suo corpo) e fece liberare l'eremita dalla catena: sotto il pezzo di cuoio che impediva all'anello di ferro di ferire la caviglia, trovò venti grosse cimici che succhiavano il sangue del martire volontario.

EFacciata della chiesa - ovest del santuariovidentemente, il fabbro non tenne la bocca chiusa. Gli abitanti della pianura e della montagna intrapresero l'ascesa del monte per andare ad ammirare il santo e chiedergli miracoli. Dio, che vedeva soltanto l'amore del suo servo e non gli errori e le sconsideratezze, gli diede il potere di esaudire quella povera gente. La notizia dei miracoli moltiplicò l'affluenza. Simeone, assediato nella sua solitudine, non cercò un altro luogo appartato come avevano fatto altri prima di lui. Nella sua ingenuità, per sottrarsi agli ammiratori che lo incalzavano, lo toccavano, gli s'inginocchiavano davanti, non trovò altro sistema se non quello di edificare una colonna di pietra e salirvi sopra. E poiché gli importuni gli apparivano sempre troppo vicini, si ritenne in dovere di innalzare sempre di più la colonna, che dai sei cubiti iniziali salì progressivamente a dodici, a ventidue, a trentasei e infine a quaranta cubiti: diciassette metri! Alta abbastanza da contemplare la folla come dal sesto piano di un immobile moderno.

Perché la folla affluiva da ogni parte, Teodoreto racconta che veniva non solo dall'Armenia e dalla Persia, ma anche dalla Gallia, dalla Spagna e dalla Bretagna. E non per essere spettatori di una vana curiosità, quasi si trattasse di un trapezista o di un equilibrista, ma proprio per edificarsi alla vista di un uomo di Dio. Perché Simeone s'era fissato come programma l'adorazione, la preghiera, la contemplazione, l'esortazione della gente. E lo realizzava a meraviglia, spesso rapito in spirito dal suo Creatore, chinandosi profondamente al cospetto della maestà divina, rimanendo per ore intere nello stato di stupore prodotto in lui dagli abissi della Santissima Trinità.

AAntica raffigurazione di San Simeone sulla colonnanche in quella situazione che per chiunque altro sarebbe divenuta insostenibile in capo a un'ora, aveva conservato il ritmo della vita monastica: preghiera per la maggior parte della notte, poi qualche momento di sonno, (col petto chinato verso il vuoto) di nuovo preghiera fino all'ora nona, esortazioni alla folla, regolamento di liti, consigli per ciascuno fino al tramonto del sole.

Allora congedava la gente dopo averle dato la sua benedizione.

Se la preghiera incessante di quell'uomo inchiodato sul posto per propria volontà era motivo di edificazione, il miracolo della sua ininterrotta immobilità era un motivo di stupore che la fede di quanti vi assistevano trasformava in azione di grazie. Ognuna delle colonne successive misurava un cubito di diametro (50 centimetri circa): tale da costringere a restare fisso nella posizione eretta, senza nemmeno poter fare un passo in avanti o all'indietro. Ora, quel contemplativo, senza dubitare una sola volta della potenza e della misericordia di Dio che gli permettevano di non cadere mai, né di giorno né di notte, dormisse o fosse sveglio, si tenesse dritto o si chinasse per le numerose prosternazioni, (un compagno di Teodoreto ne contò milleduecentoquarantaquattro in un solo giorno) restò in piedi, a gloria di Dio e a meraviglia degli uomini, per trentasette anni di seguito. Non era una favola o un imbroglio. Milioni di individui lo videro: in ragione di tremila al giorno (è la stima minima), è precisamente di milioni che bisogna parlare. E quello spettacolo non si presentò nell'illusione collettiva di un istante, ma per anni, giorno dopo giorno. Testimoni accorti, degni di fede e dallo spirito critico, alcuni dei quali accusarono Simeone di orgogliosa e inutile originalità, constatarono quel fenomeno, inaudito e continuo.

Ma non era quella la sorgente più profonda e più pura della carità che trasformava tanti spettatori. Se molti cambiarono vita per aver avvicinato un istante Simeone lo Stilita, se molti sentirono il proprio cuore sciogliersi di compunzione, fu perché Simeone lo Stilita era un'ostia vivente: offriva ogni giorno la sua ininterrotta passione al Dio che contro tutte le leggi della natura lo conservava in vita per la redenzione degli uomini. Perché il potere soprannaturale che lo manteneva in piedi non gli garantiva la salute, e se un continuo miracolo non gli permetteva di morire per la lenta distruzione dell'organismo, non per questo gli era tolta la sofferenza che ne risultava. Via via che gli anni d'immobilità si sommavano, i piedi si gonfiavano e si piagavano, la carne delle gambe cadeva a brandelli e marciva al sole, la pelle del ventre si fendeva e lasciava intravedere le viscere, le vertebre sconnesse sporgevano fuori dalla schiena e foravano la tonaca, dalla testa ai piedi egli non era più che un ammasso di organi sanguinanti e scompaginati. Ma continuava a rimanere ritto: offriva il suo martirio e contemplava la Bellezza divina. L'unione fisica alle sofferenze di Gesù crocifisso, che avverrà più tardi con le cinque piaghe delle mani, dei piedi e del costato, si manifestava in Simeone in tutto il corpo, com'era accaduto per il corpo di Cristo quale era apparso alla folla di Gerusalemme il venerdì santo all'ora nona.

TBattistero del complesso monasticoutte quelle torture fisiche, alle quali si accompagnava una dolce pace spirituale, erano conosciute solo dagli intimi. Ma gli intimi, nel corso degli anni, divennero sempre più numerosi e finirono per raccontare in giro, meravigliati, quel che sapevano. Fu però una circostanza particolare a mettere sotto gli occhi di tutti la miseria dell'uomo e la protezione di cui godeva il santo: un'ulcera purulenta si formò in un piede e assunse proporzioni tali che il pus e i vermi cadevano dalla colonna fino a terra. Tutti gli astanti erano sconvolti. Si doveva mettere termine a quella prova? I notabili, i sacerdoti, i vescovi, riuniti ai piedi dell'uomo dei dolori, lo supplicavano di scendere e di concedersi un po' di riposo. L'imperatore Teodosio in persona gli scrisse e gli fece rimettere la lettera da tre vescovi: gli propose di inviargli il suo medico personale per curarlo. Simeone disdegnò ogni preghiera e ogni proposta: <<Sono qui - rispose - per amore di Gesù Cristo. Se è Sua volontà che io muoia, morirò. Se vuole mantenermi invita, è abbastanza potente da farlo. Nell'uno e nell'altro caso, adoro la sua santa volontà>>. Il prete Como, uno dei suoi biografi, paragona in questa circostanza Simeone a Giobbe: il diavolo aveva avuto il permesso di colpirlo, ma non di farlo morire. Quel supplizio durò nove mesi, fino al termine della quaresima; il mercoledì santo, Simeone entrò in un torpore estatico da cui uscì solamente per constatare, con quanti lo circondavano, che i suoi piedi erano divenuti tutt'a un tratto normali. Il patriarca d'Antiochia si recò di persona a portargli la santa Eucaristia, arrampicandosi, per compiere quel gesto, sulla lunga scala che i discepoli avevano costruito per salire a parlare col maestro.

Simeone sapeva in quale anno sarebbe morto: ne era stato avvertito quarant'anni prima da una voce celeste; ma ignorava in quale giorno: la voce aveva semplicemente precisato che sarebbe stato preceduto da un segno celeste. Quando giunse l'anno 460, egli si mise ad aspettare il segno. E allorché un terremoto sconvolse la città di Antiochia, non dubitò che si trattasse di ciò a cui la voce aveva alluso. Per cinquanta giorni, tutta la città di Antiochia, spaventata dal cataclisma e in cerca di un rifugio soprannaturale, si accalcò intorno al santo. Il 29 luglio, cinquanta giorni dopo la prima scossa sismica, si riunirono sotto la colonna tante persone quante non se n'erano mai viste. Ispirato dall'alto, Simeone si rivolse loro così: <<Figli miei, la prova è terminata, tornate nella vostra città. Passate innanzi tutto tre giorni in preghiera e allora la vita riprenderà come prima>>. Ripartirono e lui si preparò a morire.

Il 29 agosto, sentì all'improvviso che le forze l'abbandonavano.

IVasca battesimale incavata nell'abside (a oriente) del battisterol sole si oscurò. Effluvi soavi si sparsero per l'aria. I pellegrini che erano presenti capirono. <<Padre, dacci la tua benedizione!>>, gridarono. Allora, solennemente, Simeone alzò la mano e per tre volte benedisse l'umile popolo di credenti radunato ai suoi piedi. Poi s'appoggiò alla spalla di un discepolo che aspettava quell'istante. Il discepolo lo guardò: il volto era radioso, ma l'anima aveva lasciato la terra. Il patriarca d'Antiochia accorse, seguito dai vescovi, da Ardaburio, comandante in capo dell'esercito imperiale, e da una ventina di alti funzionari dell'Impero. La traslazione del corpo ad Antiochia fu solenne: giaceva su un carro circondato da dignitari ecclesiastici e civili. Una folla che andava facendosi sempre più fitta, accorsa da Antiochia e da altre città, accompagnava il corteo formando con l'esercito uno schieramento d'onore. Dopo le esequie, le spoglie furono provvisoriamente deposte nell'oratorio di Cassiano, poi si diede loro una sepoltura definitiva in una cappella innalzata per l'occasione nel grande santuario intitolato alla Concordia e alla Penitenza.

Nella cinta di Simeone, i fedeli costruirono intorno alla colonna una chiesa e delle celle, perché il ricordo del grande mistico si perpetuasse sul posto. Il monte di Simeone fu chiamato monte di Mandra (dal greco mandra: piccolo monastero).



Testo integrale tratto dalla vita di San Simeone di Sis -lo Stilita -